Berta non filava
Aveva filato solo quando, ancora
fanciulla dalle dita morbidose e doppie, costringeva sua madre a
portarla al "ristorante dei piccoli", quel luogo che ai
suoi occhi appariva una dimensione a misura di bimbo, dove regnavano
urla, giochi e creatività. Ecco, lì aveva imparato a filare, alla
scuola materna.
Ma il fuso era stato accantonato poco
dopo, nell'umidità della cantina.
Man mano che cresceva il suo corpo, si
facevano strada nei suoi occhi vispi la curiosità, la voglia di
guardarsi intorno, di scoprire il mondo, di avventurarsi per contrade
mai viste, spinta dalla sola forza delle ginocchia sbucciate ed
accompagnata dal suono dell'allegro campanello della bicicletta.
Leggeri vestiti al vento, sottili sandali consumati dalle corse,
pelle scurita dal sole e dalla polvere di terra arsa. Borsetta di
cuoio a tracolla, e via.
Da allora erano passati anni e Berta si
era trasformata in una donna in carriera.
Tailleur, capelli tirati, tacchi
vertiginosi, trucco impeccabile, unghie laccate, fragranza
inebriante, occhiali da intellettuale, e valigia sempre pronta al
seguito.
Tuttavia, la trasformazione non poteva aver
colpito tutto il suo essere. Qualcosa filava e qualcosa no.
Nonostante l'affidabilità, la precisione, l'impegno, la
professionalità, c'era una qualità che faticava ad essere domata e
che la riassumeva e la rappresentava alla perfezione: Berta era un
tantino sbadata.
Ogni volta che scendeva dalle nuvole,
toccando il suolo mentre si apprestava a lasciare un qualsiasi mezzo
di trasporto (un treno, un aereo, un autobus, un risciò), con cui
portava la sua valigia in giro per il mondo, realizzava di aver
lasciato qualcosa sul seggiolino accanto al suo. Un foulard, un
biglietto di viaggio, il pranzo, una cartolina già scritta.
Insomma, aveva bisogno di documentare
ai posteri il proprio passaggio. Aveva bisogno, inconsapevolmente, di
sapere che il passeggero successivo si sarebbe imbattuto in qualcosa
di suo, fantasticando su di lei.
Una volta si dimenticò del libro che
stava leggendo.
Quando ormai era già arrivata a casa, a migliaia di chilometri di distanza dall'aereo e dall'aeroporto, dopo aver sorriso ancora una volta della sua sbadataggine, fantasticò sulla sorte del suo amico silenzioso. Qualcuno, sul volo successivo, lo avrebbe preso e ne avrebbe letto le prime pagine. Qualcun altro, ancora dopo, lo avrebbe aperto a caso, leggendone qualche riga, che si sarebbe rivelata una soluzione ad un problema. Nessuno avrebbe preso con sé il libro, ma ciascuno, dopo averlo fatto suo per qualche ora, lo avrebbe accuratamente riposto nella tasca dietro lo schienale davanti al suo posto.
Quando ormai era già arrivata a casa, a migliaia di chilometri di distanza dall'aereo e dall'aeroporto, dopo aver sorriso ancora una volta della sua sbadataggine, fantasticò sulla sorte del suo amico silenzioso. Qualcuno, sul volo successivo, lo avrebbe preso e ne avrebbe letto le prime pagine. Qualcun altro, ancora dopo, lo avrebbe aperto a caso, leggendone qualche riga, che si sarebbe rivelata una soluzione ad un problema. Nessuno avrebbe preso con sé il libro, ma ciascuno, dopo averlo fatto suo per qualche ora, lo avrebbe accuratamente riposto nella tasca dietro lo schienale davanti al suo posto.
Quel libro avrebbe incontrato i
passeggeri più disparati, ne avrebbe accolto la curiosità, saziato
l'immaginazione, e se ne sarebbe tornato al proprio giaciglio con un
paio di impronte in più ed un numero crescente di innocenti
sgualciture. Quel libro avrebbe percorso, indisturbato, migliaia di
chilometri, sorvolato immensi spazi turchesi, attraversato lucenti
mari e sconfinati oceani.
Quel libro, nei momenti in cui giaceva
adagiato tra le mani di un nuovo passeggero, scrutato dal suo sguardo
attento, si sarebbe trasformato in un filo, un filo che unisce un
capo del mondo all'altro.
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